Talento, istinto, bisogno e condanna: l'esteta della violenza
Nicholas Winding Refn è uno dei registi più talentuosi del momento.
"Drive" e questo "Bronson" mi sono bastati a trovare la conferma di questa affermazione, che avevo letto e sentito svariate volte negli ultimi tempi.
Violenza.
Imperativo categorico dei suoi film, la violenza lega indissolubilmente le due pellicole e i due personaggi che di queste pellicole sono protagonisti: il guidatore interpretato da Ryan Gosling e Mickey Peterson alias Charles Bronson, interpretato da un Tom Hardy sontuoso e incisivo con lo stesso fisico che avrebbe caratterizzato il suo Bane in "The Dark Knight Rises" quattro anni dopo.
Ma se il protagonista di "Drive" con la violenza ha a che fare e la usa solo quando costretto, il Bronson di Hardy la violenza la vive e la usa per piacere: un piacere morboso che sa quasi di necessità, "piacere" che va inteso sia come sostantivo che come verbo.
Già, perchè l'uomo che diventerà il detenuto più famoso d'Inghilterra, a diciannove anni, era solo un ragazzo che voleva farsi conoscere.
Fare il meglio con ciò che si possiede
"Bronson" narra la storia di un uomo con un solo talento e un solo obiettivo, e che come il più semplice e pragmatico degli uomini, decide di usare il primo per raggiungere il secondo.
Mickey Peterson sa picchiare.
"I couldn't fucking act", dice all'inizio della pellicola.
E quando viene processato per un crimine minore, non si ritrova in carcere: per lui è come essere in un albergo, in cui può esercitare il suo talento, la sua nuova processione. Fa a botte con chiunque, soprattutto secondini, inscena rivolte, prende ostaggi per attirare nuovi sfidanti.
Dopo l'ennesimo trasferimento. Neanche il manicomio lo ferma. Appena libero, entra nel giro dei combattimenti clandestini, ma solo per 69 giorni. Verrà di nuovo arrestato e ricomincerà il suo tour de force tra carceri, che non smetterà mai.
Bronson diventerà il detenuto più famoso d'Inghilterra. Raggiungerà il suo obiettivo, usando la violenza: suo talento, suo istinto, suo bisogno personale, suo condanna.
Ma per noi Charles alla fine del film non sarà solo questo. un povero picchiatore condannato a sè stesso.
Bronson, in realtà è un uomo di spettacolo.
L'arte violenta, l'artista di sè stesso
Sì, perchè il regista tratta l'anima del lottatore, non le sue gesta. Molte sono sottintese, narrate con poche immagini che non ci fanno capire di cosa si tratta (le rivolte sui tetti delle carceri), ma ci suggeriscono quale potrebbe essere uno dei suoi sentimenti principali (l'odio, la voglia di ribellarsi).
Il film è narrato su tre piani: il racconto di un Bronson che parla in piano medio guardando in telecamera; quello delle immagini sequenziali, che ci fanno vedere la storia; e infine quello più metafisico, di un Bronson su un palco di teatro davanti ad una platea che elogia ciò che è stata la sua vita.
Proprio a suggerirci che Bronson non è solo ciò che appare, ha un animo diverso da quello di un semplice duro di strada e di cella. È un esteta, che sceglie solo di essere ciò che è perchè è il miglior modo per avere successo.
Lui non voleva fare del male, ma ha dovuto farlo, altrimenti non avrebbe potuto diventare famoso.
Solo alla fine del film scopre un altro talento: quello artistico. Si scopre essere un surrealista "più talentuosso di Magritte". E si impegna nella sua arte, gli piace anche questo suo modo di essere.
Ma è in carcere.
I suoi dipinti non possono uscire di lì.
E allora si dia inizio allo scoppio di violenza finale, all'ultima celebrazione del proprio ego. E anche nella violenza, possiamo trovare una componente artistica: i combattimenti sono accompagnati da musiche liriche, lo stesso protagonista spesso si dipinge o si unge, un po' per comodità, un po' per vanità.
E per concludere, capolavoro di stile. Musiche, fotografia, regia, interpretazione, messa in scena.
Tutto perfetto.
C'è anche un po' di humor ben calibrato.
Geniale.
by E. N.,
libero e proiettato al futuro
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